L'antico vulcano del Circeo
di Gianluigi Proia
da Mystero n.50 di luglio 2004
Mondo Ignoto SrL
Testimonianze raccolte fino al 1700 rivelano che a lungo, è stato attivo un potente vulcano che ricopriva spesso di fumo quasi tutte quelle aree, arrivando a volte anche ad oscurare del tutto il sole. Dell'esistenza di quell'antico cono eruttivo ci sono molte conferme geologiche ma anche letterarie: ne hanno parlato per esempio il grande poeta greco Omero.
Nel libro decimo dell'"Odissea" esiste una traccia che possa portare all'individuazione del sito di un antico vulcano situato qui in Italia sulla costa pontina?
Ed è possibile che elementi, apparentemente in grado di confermare questa tesi, fossero ancora riscontrabili in tempi a noi molto vicini, cioè addirittura alla fine del Settecento?
Ad avanzare organicamente l'ipotesi della possibile esistenza, in tempi poi non troppo remoti, di un vulcano attivo in quelle aree che all'epoca erano le Paludi Pontine è stato nel diciottesimo secolo l'abate Domenico Testa, un naturalista veneto di fama internazionale che nel 1784 scrisse su quest'argomento quel che ora si definirebbe come un saggio monografico, da lui intitolato "Lettera sopra l'antico Vulcano delle Paludi Pontine".
Si tratta di una trattazione accurata di indubbio interesse che "Mystero" ha potuto consultare soprattutto grazie alla collaborazione del professor Marco Ciardi, ricercatore in "Storia della Scienza" presso il Dipartimento di Filosofia dell'Università di Bologna: Ciardi è quel valente studiosi che molti già conoscono perché autore dell'ottimo e approfondito libro "Atlantide: una controversia scientifica da Colombo a Darwin" (Carocci Editore), che raccomandiamo caldamente a chi non l'avesse letto ancore.
Ma quali erano gli elementi concreti in base ai quali nel 1784 l'abate Testa è giunto a formulare la sua tesi sull'esistenza di un vulcano attivo nelle Paludi Pontine?
Innanzitutto, l'analisi di alcune caratteristiche geologiche e morfologiche di quel territorio come quell'illustre studioso del Settecento evidenziava sin dalle prime pagine del suo lungo e approfondito scritto: "Le cave di vera pozzolana, onde abbondano que' luoghi, la copia delle tufe, che han dato fino il nome ad una di quelle contrade, che chiamasi perciò la Tufeta, l'esalazioni sulfuree, che sorgono ancora da alcuni sotterranei di Terracina, i ruscelli d'acqua parimenti sulfurea che s'incontrano presso Sermoneta, la fertilità di quelle terre... sono più che bastevoli a dimostrare che quel tratto di paese ingombrato ora dalle paludi... è stato una volta soggetto alle eruzioni d'un vulcano. L'acque sulfuree possono acconciamente chiamarsi le medaglie de' vulcani, ad imitazione del Fontanelle, che chiamo' graziosamente medaglie del del diluvio le conchiglie marine sparse pe' nostri monti".
Testa prosegue nel suo resoconto elencando un'altra lunga serie di considerazioni che a suo parere confermano la sua tesi su;;'esistenza di quell'antico vulcano, tesi che pero' venne attaccata da un altro studioso dell'epoca, il Di Saussure, il quale commento' la pubblicazione del saggio dell'abate obiettando che era del tutto privo di fondamento, non essendoci invece a suo parere nulla tra Mola di Gaeta e Velletri che potesse far pensare alla possibile presenza di un vecchissimo cono eruttivo. Allora quel grande naturalista veneto, l'abate Testa, gli rispose facendo presente che i recenti scavi voluti da papa Pio VI' per bonificare le Paludi Pontine avevano mostrato in tutta la loro evidenza in quelle zone, una volta tolta l'acqua e il fango, la presenza sul fondo di numerosi e spessi "strati di lava, di tufa, di cenere chiara..." che a suo parere costituivano la "...infallibile prova di un antico vulcano".
E all'obiezione avanzata da numerosi altri studiosi dell'epoca, secondo cui quel fatto era impossibile in quanto nessuno degli autori antichi, da Strabone a Dionigi di Alicarnasso, aveva mai scritto dell'esistenza di quel vulcano attivo, l'abate Testa con motivata decisione replico' che questo voleva unicamente dire che ai tempi in cui gli autori ricordati in precedenza avevano scritto le loro opere il vulcano non solo era spento, ma che di esso si era "anche perduta la memoria".
E poi il puntiglioso abate Testa aggiunse che comunque non era del tutto vero che non esistesse in nessun autore dell'antichità un richiamo a quell'antico vulcano pontino.
L'abate Testa riteneva infatti di averne trovato un indizio proprio in Omero e più precisamente nel libro decimo della sua "Odissea".
Già, proprio in quell'Omero, sottolineava Domenico Testa, che Strabone aveva definito "principe dei geografi" e le cui descrizioni, almeno secondo Polibio, anche se spesso colorite con licenze poetiche, "hanno tutte un fondamento reale o nella storia o nella natura".
Ma quale episodio nel Decimo Canto dell'Odissea aveva fatto pensare al naturalista veneto di aver trovato un'importante conferma delle sue ipotesi?
Il porto delle nebbie
Nel Settecento si discuteva molto in ambito accademico (ma non solo...) in merito alla individuazione dei luoghi in cui Omero aveva ambientato le avventure di Ulisse.
Nell'ambito di tale controversia particolarmente accesa era la discussione su dove potesse essere localizzata nella narrazione omerica la città di Lamo, un florido centro abitato dai Lestrigoni, a sei giorni di navigazione dalle isole Eolie.
Secondo Cluverio tale città poteva essere individuata nei pressi di Gaeta, mentre secondo altri, che si basavano prevalentemente su quanto scritto in proposito da Cicerone e da Plinio, Lamo era localizzabile nei dintorni di Formia.
Invece l'abate Domenico Testa, in disaccordo con gli uni e gli altri, nel suo scritto "Lettera sopra l'antico Vulcano delle Paludi Pontine" avanza una terza ipotesi che maggiormente si adatterebbe, per caratteristiche geografiche, alla descrizione del luogo in cui si sarebbe trovato il porto di quella città.
Scalo così' viene presentato nell'"Odissea" da Omero:
Bello e ampio n'è il porto; eccelsi scogli
Cerchianlo d'ogni parte, e tra due punte,
Che sporgon fuori e ad incontrar si vanno,
S'apre un'angusta bocca...
Un porto dunque, quello di Lamo, che in altre parole sarebbe stato circondato da altri scogli che lo avrebbero delimitato in modo da lasciare solo uno stretto ingresso.
La città vera e propria poi non si sarebbe trovata al livello del mare, più all'insu', tanto che per raggiungerla, una volta sbarcati, si doveva:
La via diretta seguitar, per dove
I carri conducevano alla cittade
Dagli alti monti la troncata selva.
Quel centro abitato avrebbe quindi sovrastato il porto, in cui sarebbe approdato Ulisse, ed era situato in collina a ridosso dei monti più alti.
A questo punto per l'abate Domenico Testa non ci sono più dubbi.
Lamo, l'antica capitale dei Lestrigoni, non poteva che essere localizzata "presso a poco là, dove ora è Terracina".
Cio' sarebbe suffragato da questa indicazione orografica, come evidenzia l'abate veneto ricordando, fra l'altro, come il nome stesso di quella piccola ma bellissima cittadina pontina, secondo Strabone, derivi "dall'asprezza de' montuosi scogli, a quale è sovrapposta".
Le caratteristiche poi del porto di quel centro tirrenico indicate da Omero sarebbero molto simili, se non del tutto coincidenti, con quanto riportato anche da altri autori come Giulio Capitolino che lo chiamo' "Angiporto", o come il Contatori che descrivendolo scrisse: "Eo quod, os ejus esset angustum, ut etiam nunc cuibilet videre est".
La "total-nebbia" di Ulisse
Identificata quindi, a suo avviso al di là di ogni ragionevole dubbio, l'antica Lamo con la moderna Terracina, l'attenzione dell'abate Testa si sposta su quel che, secondo Omero, avrebbe visto Ulisse una volta sbarcato su uno scoglio nei pressi di quel porto, e cioè:
Lavor di bue non si scorgea, ne' d'uomo
Sol di terra salir vedeasi un fumo.
Ulisse, in altre parole, non vedeva davanti a se' da quello scoglio praticamente nulla, sottolinea Testa, se non un fumo continuo che scaturiva dal suolo e che proprio per la sua densità impediva di scorgere cosa c'era nel territorio circostante.
Ricordando lo scrittore moderno di fantascienza americano Fredric Brown e il suo delizioso romanzo ironico "Assurdo universo", potremmo quindi anche arrivare a dire che, una volta sbarcato a Lamo/Terracina, Ulisse si trovo' tutto circondato da una specie di "total-nebbia", ovvero da quella nebbia fittissima che nell'ipotetico (ma divertentissimo...) mondo futuro descritto in quel libro avvolge ogni notte New York rendendo impossibile a chiunque di vedere anche a un solo metro di distanza.
E qui bisogna far notare che questo concetto di Omero del fumo che sale lentamente dalla terra e che è, proprio come la fantascientifica "total-nebbia" di Brown, tanto fitto e denso da nascondere ogni cosa alla vista di Ulisse, viene espresso in maniera assai marcata nel testo originale di quel canto dell'"Odissea", mentre le varie traduzioni in italiano e in latino di quel passo del poema sono sempre state molto più vaghe e meno tassative a questo proposito.
Il vulcano di Terracina
Sempre leggendo Omero, scopriamo che poi Ulisse, quando fugge la Lamo e arriva nella terra di Circe, vede nuovamente un fumo ardente che sale da una selva
E di nuovo, secondo l'interpretazione di quest'altro punto del testo fatta dall'abate Testa nel Settecento, anche questo fumo sarebbe di origine vulcanica: per la precisione, secondo quel famoso naturalista veneto il fumo denso e ardente qui visto da Ulisse proveniva, esattamente come quello che in precedenza aveva accolto l'eroe all'arrivo a Lamo/Terracina, dalle pendici di un grande vulcano attivo che sorgeva in quell'area italiana.
Un vulcano localizzabile piu' o meno lungo il litorale o negli immediati dintorni di Terracina.
Esiste poi un altro particolare che, secondo il ricercatore veneto del 1700, potrebbe far ritenere che l'autore dell'"Odissea" fosse venuto a conoscenza dell'esistenza in tempi remoti di un vulcano ancora attivo esistente appunto in quella parte della costa tirrenica.
Quando infatti le navi della flotta di Ulisse sono costrette ad abbandonare il porto di Lamo/Terracina, sono oggetto di un'autentica pioggia di sassi che il grande poeta cosi' descrive:
"Immense pietre cosi' dai monti a fulminar si diero".
Pietre d'enorme grandezza lanciate dai giganteschi abitanti di Lamo, guidati da Antifate, dall'alto delle rupi.
Ma nel suo saggio l'abate Testa ricorda che: "Queste piogge di sassi rammentate dagli antichi non sono che eruzioni vulcaniche.
"I poeti hanno finto che le caverne de' monti vulcanici fossero abitate da poderosi e terribili giganti. Chi non sa la storia de' giganti fulminati in Flegra?"
Di conseguenza, il racconto dei sassi scagliati dai giganti contro la flotta di Ulisse potrebbe essere nient'altro che il resoconto, mitizzato, di un'eruzione vulcanica avvenuta migliaia di anni fa in quel che oggi è la Pianura Pontina.
E nel proseguo del poema "L'Odissea" c'è ancora un elemento che, secondo l'interpretazione dell'abate Testa, darebbe ulteriore credito a tutta la sua ipotesi.
Ulisse, scrive ancora nel 1700 quel grande naturalista veneto (il quale con le sue ricerche suscito' allora l'interesse e il consenso di molti studiosi, fra cui anche Gianrinaldo Carli, docente di geografia all'Università di Padova), dopo aver lasciato anche l'isola di Circe approda "nella terra de' Cimmeri, che a dir d'Omero, vivevano in una perpetua notte, tanta e siffatta era la caligia, ond'erano eternamente ingombrati..."
Cimmeri che, secondo diversi interpreti dell'autore dell' "Odissea", sarebbero da individuare negli abitanti di una zona contraddistinta da intensa attività vulcanica, probabilmente Cuma presso il lago d'Averno che secondo lo studioso Hamilton non sarebbe altro che un cratere vulcanico.
Per cui osserva l'abate Testa che "se le tenebre dei Cimmeri descritte da Omero non erano in sostanza che caligine prodotta dai vulcani, che quivi ardevano, sembra che le tenebre del medesimo Omero poco prima o fumo rammentate, quelle cioe' che tolsero ad Ulisse l'aspetto dei campi pontini, e dell'isola di Circe, tenebre da lui chiamate dense, ed ardenti, altro finalmente non fossero che fumo vulcanico".
La conclusione del naturalista veneto è che tutto lascerebbe pensare che in un periodo storicamente non precisabile nell'area a nord di Terracina, probabilmente nelle immediate vicinanze del Monte Circeo, sarebbe stato a lungo attivo un vulcano, le cui eruzioni visibile dal mare sarebbero state registrate da naviganti di passaggio... e infatti non è un caso che i vocaboli "Lamo", "Circe" ed "Eolo" siano tutti, molto probabilmente, di origine fenicia, come già indicato dal Bochart.
E i fenici, non è certamente un mistero per nessuno, erano considerati i maggiori navigatori dell'antichità.
E se gli antichi Re del Mare...
Fin qui le argomentazioni esposte da Testa, su cui, confidava l'abate stesso nelle ultime righe del suo saggio, quello studioso del 1700 si augurava di poter tornare a trattare in futuro con maggior precisione.
Ignoriamo se poi l'abate Testa sia riuscito in tale intento ma sicuramente quella sua ricerca, oltre a suscitare l'approvazione di uno dei più attivi e anticonformisti intellettuali di quei tempi, il già ricordato Gianrinaldo Carli, spinse altri studiosi ad occuparsi del mistero del vulcano del Circeo, un argomento che, lo vedremo in una prossima occasione, potrebbe avere molto più fondamento di quanto si possa immaginare come, argutamente, già ammoniva lo stesso Domenico Testa nelle prime pagine della sua "Lettera": "Voi ridete, e pensate, ch'io voglia la baja del fatto vostro... leggete attentamente quello, ch'io sono per iscrivervi, e poi, se vi parrà, tornereste a ridere a vostro bell'agio".
Sarebbe sicuramente interessante sapere se avesse letto la "Lettera" di Testa un altro ricercatore controcorrente vissuto nella prima metà del Novecento il medico, archeologo e filologo Evelino Leonardi, di cui ci siamo occupati a lungo nel numero di settembre dello scorso anno, che in quel che puo' essere considerata una affascinante sintesi delle sue ricerche, "Le Origini dell'Uomo", volume pubblicato nel febbraio del 1937, scriveva: "Colui che volge i suoi passi per le alte pendici del Circeo a picco sul mare, oltrepassato il promontorio di Venere, trova a un certo punto un ampio semicerchio di rocce che è visibilmente il mezzo cratere di un vulcano essendo l'altra metà precipitata nel mare...
"Si vedono le colate di lava che hanno infuso e inglobato sabbia e detriti scendendo fino al mare: la valle prossima si chiama Valle Caduta e piu' avanti è il cosiddetto Precipizio, cioè una roccia alta 400 metri a parete liscia a picco sul mare.
"Questa segna il punto di frattura della terra sprofondata. Il Vulcano era quel gran fumo che vedeva Ulisse salire dalla terra guardando dalle coste di Terracina ed è quello stesso che ci descrive il Cartaginese Hannone nel suo periplo..."
Leonardi pensava di aver localizzato il cratere del vulcano nella parte piu' impervia del Monte Circeo e riteneva di aver trovato prova della sua intuizione nel racconto di un navigatore cartaginese, quindi di lingua fenicia, come fenicia sarebbe stata l'origine dei termini Lamo e Circeo, almeno secondo lo studioso francese citato da Domenico Testa.
Ma se, come acutamente aveva osservato il naturalista veneto, quando Strabone e Dionigi d'Alicarnasso avevano redatto le loro opere, non solo il vulcano si era spento, ma di esso si era "anche perduta la memoria"... a quale periodo potrebbe allora risalire quanto osservato al largo delle coste laziali dall'ignoto navigante che sarebbe stato l'inconsapevole ispiratore di cio' che è stato descritto in seguito da Omero?
Forse all'epoca remotissima degli antichi Re del Mare dei quali ha scritto per primo Charles Hapgood nel suo fondamentale testo uscito finalmente da poco anche qui in Italia, "Le Mappe delle Civiltà Perdute"?
E considerando dunque la presumibile estrema antichità di quell'osservazione, non è ipotizzabile che i Fenici quindi in realtà non facessero altro che tramandare solo vecchissime tradizioni preesistenti?
>vedere anche: 1750 eruzione vulacanica al Circeo?
agg.1 25.01.2004